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La pandemia ha ridotto la nostra resistenza al cambiamento?

Scritto da Domenico Malara | 28.10.2021

Guardandoci indietro e ripensando a dicembre 2019, nessuno di noi avrebbe potuto immaginare che, di lì a poche settimane, ci saremmo ritrovati a indossare mascherine nei luoghi pubblici e lavorare da casa in un isolamento pressoché totale. Con il passare del tempo, abbiamo iniziato a pensare che le trasformazioni non sarebbero finite a breve e anche il ritorno alla normalità sarebbe stato più l’avvio di una nuova normalità. Uno degli effetti inattesi della pandemia può essere osservato sulla nostra resistenza al cambiamento: ci siamo davvero sentiti più disponibili ad accettarlo e viverlo?

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Prima della pandemia: la resistenza al cambiamento come costante nelle organizzazioni

Il cambiamento in azienda ha da sempre rappresentato una situazione complessa.

Da un lato, le persone faticavano a comprendere l’esigenza di modificare le proprie abitudini; dall’altro lato, la maggior parte delle organizzazioni avviavano una trasformazione solo quando si trovavano costrette a farlo. Che si tratti di strategie commerciali, cultura interna, procedure e strumenti di lavoro, finché tutto sembrava funzionare come sempre, era raro che si intervenisse con cambiamenti radicali.

Quando invece risultava inevitabile, la gestione del cambiamento veniva spesso delegata a un singolo manager, non sempre dotato delle giuste competenze, senza che fossero coinvolti i collaboratori a tutti i livelli.

 

 

Le caratteristiche comuni alle organizzazioni che hanno resistito all’impatto della pandemia sulle attività - e in molti casi sono state persino in grado di incrementarle - sono:

  • la capacità immediata di gestire l’emergenza
  • la disponibilità nell’adottare nuove modalità di lavoro e organizzazione delle persone
  • la rapidità nell’immaginare i futuri scenari possibili
  • il tentativo di delineare le azioni essenziali per la fase successiva a quella più critica

In “The heart of resilient leadership: responding to Covid-19”, Deloitte ha identificato tre diverse fasi che si sono presentate nella gestione dell’emergenza sanitaria:

La fase di respond, un momento in cui l'azienda affronta la situazione e gestisce la continuità; recover, fase durante la quale un'azienda apprende e ne riemerge più forte; thrive, fase finale in cui l'azienda si prepara e delinea "the next normal".

A tutti noi sarà capitato almeno una volta di sentire dichiarare come dalla pandemia saremmo usciti migliori, sia come individui che come società.

Se c’è un elemento di cui possiamo essere certi è che, alle aziende, il COVID-19 abbia impartito una lezione fondamentale: la consapevolezza di quanto sia necessario, per essere competitive in un mercato tanto irrequieto, adottare una mentalità di crescita, fondata sul miglioramento e sull’apprendimento continui.

 

In cosa consiste questa mindset?

 

Mirare al miglioramento continuo significa cogliere ogni opportunità di mettersi alla prova, anche prima che il contesto attorno a noi diventi sfidante o che una contingenza esterna crei la necessità di cambiamento, ricercando modalità nuove per eseguire le attività e comportamenti più efficaci.

L’adattamento costante a cui ci siamo sottoposti durante la pandemia può essere dunque considerato come una preziosa eredità, perché ha allenato il nostro cervello alla creazione di nuove abitudini, assottigliando la naturale resistenza al cambiamento.

Quella di adattarsi in modo più rapido quando ci troviamo di fronte a una situazione di pericolo è una caratteristica tipica di noi esseri umani.

 

Potrebbe essere problematico, quindi, mantenere la mentalità di crescita quando tutto sarà tornato alla normalità?

 

Probabilmente sì, se non si inseriscono nella cultura organizzativa agilità, flessibilità e apprendimento continuo, leve estremamente efficaci per la competitività, anche nei contesti più complessi.

Le conseguenze della pandemia sull’economia e sulla società sono tutt’altro che superate e sarà sempre più strategico – non solo per le organizzazioni – incoraggiare la condivisione di idee e nuove prospettive di miglioramento.

Sarebbe invece opportuno evitare di adottare la cosiddetta expert mind, che emerge in alcuni leader navigati e li induce a credere di conoscere ogni possibile sfumatura del settore. Senza volere sminuire il valore delle competenze e del know-how, l’efficacia nell’affrontare un contesto volatile come quello attuale – e con il quale, con tutta probabilità, dovremo fare i conti ancora per un buon periodo – si concretizza adottando piuttosto un approccio da esordienti, almeno per quanto concerne la disponibilità all’apprendimento continuo.

Ci avviciniamo così al concetto giapponese di shoshin (初心), che letteralmente significa “cuore del principiante” e indica quell’atteggiamento di completa attenzione e libertà dai pregiudizi tipico di quando apprendiamo qualcosa di nuovo.

 

 

Se, da un lato, la pandemia ha in un certo senso ridotto la nostra resistenza al cambiamento, abbiamo visto come sia altresì importante mantenere l’apertura alle novità e la disponibilità all’apprendimento che abbiamo dimostrato di possedere mentre ci trovavamo a fronteggiare una vera e propria emergenza.

Come si può fare? Allenando la nostra mente a una maggiore flessibilità e provando a mantenere quel “cuore del principiante”, potremo continuare a sviluppare nuove idee ed efficaci modalità di lavoro.

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  • vivere con successo il cambiamento
  • raggiungere i propri obiettivi
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